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La precarietà accademica, ovvero il gioco del silenzio, di Ilaria Agostini, ricercatrice-docente precaria - MicroMega, 7 septembre 2009

jeudi 10 septembre 2009

È legittimo chiedersi perché in Italia i precari, forza numericamente rilevante, assorbano in silenzio i colpi impietosi loro inferti da un sistema lavorativo che, qualche decennio fa, avrebbe procurato notti insonni a datori di lavoro, privati o pubblici, a imprenditori o rettori. Il fenomeno dei lavori a termine conosce, nell’ambiente universitario, dove peraltro ha dimensioni dilaganti, la sua massima espressione di afasia : al ricercatore-docente avventizio, con mansioni da "adulto", ma status di "giovane" individuo non ancora accolto dalla comunità, è precluso l’ascolto e la parola. Non sente la voce ufficiale dell’istituzione che lo esclude, più per consuetudine che per legge, dalle assise accademiche e dalla vita "democratica" di ateneo, adducendo a motivo la intrinseca inafferrabilità della categoria precaria. Anche la voce sindacale, cui il lavoratore disagiato è tradizionalmente sensibile, è flebile : i sindacati stentano ancora ad accettare tanta perversione in un territorio da sempre off-limits.

Il lavoratore provvisorio non sente il richiamo del branco, che non esiste. Il temporaneo della ricerca e della docenza universitaria non è un animale gregario, si mantiene su posizioni di autismo culturale ; individuo solingo in un ecosistema ostile, si concentra sulla propria sorte e ricama su se stesso. I colleghi li ritiene competitori diretti, a maggior ragione se precari anch’essi ; anzi, più il lavoratore è instabile, più teme i suoi simili. L’unico riferimento esterno è, per il ricercatore avventizio, il professore-madre.

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